di Monica Maggi #Roma twitter@gaiaitaliacomlo #Cultura
Aver passato più di mezzo secolo in questa città, lei che ti strappa il cuore e che ti fa impazzire come il peggior amore manipolatore narcisista possibile. Avere il sangue di una romana di sette generazioni con una madre ebrea, e quindi essere ebrea nelle vene, ebrea proprio di quella zona che è Portico d’Ottavia, il Ghetto, il posto che profuma di pizza bianca e carciofi alla giudia.
Essere tutto questo e decidere che sì, è ora di andarsene. Immaginate il più strappalacrime e struggente the end alla scena finale del film, io che la saluto questa città col fazzoletto bianco, piango e mi dico che se torno muoio. Sì che muoio.
Trent’anni fa avevo già fatto il primo passo. “Ma dove vai così lontano…” diceva mia mamma con le lacrime agli occhi, pensando a me che lasciavo la città per andarmene indovinate dove? Riano, Valle del Tevere, 24 chilometri (contati) da Ponte Milvio, quartiere Flaminio, nord della città. Me ne andavo in una villetta perché avevo voglia di cani senza il rompipalle del vicino del piano di sotto che potesse protestare per il rumore delle unghie sul pavimento o per l’abbaiare notturno. Perché volevo gatti in giro dentro e fuori casa, e bambini in giardino e un albero davanti alla finestra della cucina che mi potesse avvertire, col cambiare colore, del passaggio delle stagioni.
Volevo tutto questo e l’ho fatto.
Poi i figli sono nati, cresciuti e partiti, la casa è diventata troppo grande e la voglia di cambiare e ricominciare torna (i desideri non invecchino quasi mai, con l’età) e si torna anche a trovare l’amante amore appassionato: Roma. Bene, è stato uno schianto al cuore.
Non troverò mail le parole adatte per descrivere il dolore, la disperazione, l’abbattimento, lo stupore crudele e impietoso che mi attanaglia quando scendo dal trenino Roma-Viterbo e approdo a piazzale Flaminio, a due passi da piazza del Popolo, pieno centro di Roma. È uno stringere il cuore perché penso sempre che sia una silenziosa e subdola intossicazione dell’anima, non ce ne accorgiamo, non ci facciamo caso, siamo tutte afflitte dalla sindrome della “rana bollita” e ci cuociamo lentamente in questo pentolone di malessere e malfunzionamento di tutto.
I trasporti, la viabilità, la spazzatura non raccolta, i disservizi degli uffici pubblici, i negozi storici e le librerie che scompaiono e i negozi di paccottiglia che appaiono uno dietro l’altro, i quartieri colonizzati dal malaffare e dalla microcriminalità, i parchi vandalizzati, i parcheggi inesistenti, i monumenti cannibalizzati.
Badate bene, non sono gli stranieri e neanche l’aumento della popolazione ad aver decretato questa distruzione, nessun barbaro e nessun lanzichenecco. È semplicemente che questa città non è stata amata abbastanza da chi doveva curarla e allevarla, come si fa con un bambino, un essere umano, una creatura vivente.
E poi un giorno, era mattina presto, ho guardato dalla mia finestra e di fronte a me si muovevano lentamente i rami della quercia secolare che ho trovato, trent’anni fa, nel mio giardino. Avevo in mano un libro di poesia (la mia passione, da anni ho chiesto di essere registrata dal Comune di Roma come poeta artista di strada) e ho avuto la classica illuminazione. Sono corsa (aspettando ovviamente un’ora decente) a casa della mia amica antropologa e sociologa Enrica Tedeschi, e le ho detto che era ora, era il momento.
Così è’ nato il progetto Poesia e Immersione nel Bosco, e ci rifacciamo allo Yasei Shinrin Yoku (immersione nella foresta per potenziarne la natura selvaggia): tre ore trascorse camminando tra querce e castagni, in silenzio. Sentendo solo il crocchiare delle foglie sotto i piedi, il fruscio dei rami spostati per passare, il cinguettio dei passeri e il verso dell’upupa. A interrompere il silenzio ci saranno solo due poesie lette a voce alta ma non troppo, e poi si tornerà a camminare, in silenzio.
Alla fine ci si ritroverà in un salotto di casa, immersa anche quella nel bosco, con una tisana e una fetta di dolce, per raccontare cosa si è provato. Cominceremo il 10 marzo alle 15, e sono felice di questa voglia di bellezza che desidero contagiasse tutti. Se ci riuscissi vorrei che ognuno di noi, dopo aver ricevuto in dono le parole non dette che il bosco e la natura ci regalano, fosse consapevole che “un altro mondo è possibile”.
Dipende solo da noi.
La prenotazione è obbligatoria e ci sono solo 10 posti disponibili all’email allaquerciadeisogniparlati@gmail.com oppure ai telefoni e Whatsapp: 3290570967 | 3664008466. C’è sempre Facebook: https://www.facebook.com/laquerciadeisogniparlati/.
Per contatti: https://laquerciadeisogniparlati.jimdo.com/contatti/, da lì riceverete mappa e indicazioni stradali. Ecco tutte le info qui.
(10 febbraio 2019)
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