di Vittorio Lussana
La frase di Papa Francesco sui “medici sicari” che praticano l’aborto ha dimostrato, per l’ennesima volta, come la Chiesa non possieda gli strumenti per affrontare certi argomenti con l’opportuna delicatezza e diplomazia.
Si tratta di un’intransigenza che muove da motivazioni estremamente chiare: la posta in gioco è il suo stesso ruolo di orientamento della moralità pubblica. Se la Chiesa dovesse perdere questa fondamentale partita, essa si vedrebbe ridotta verso una posizione marginale, come quella della Chiesa anglicana o delle confessioni luterane. Senza un ristabilimento del proprio ruolo–guida, le sue possibilità di mantenere una centralità, in Europa e nel mondo, intorno alle grandi scelte dell’umanità, diventerebbero poco consistenti. Essa ritiene, infatti, di poter ancora svolgere un ruolo da protagonista, in quanto portatrice di verità irriducibili in tempi di incertezze profonde. Ma le cose non stanno affatto così, dato che il fanatismo religioso, come al solito, sta dando il peggio di sé in tutto il mondo.
Alla base di tutto questo vi è, tuttavia, anche l’indebolimento del pensiero laico. Una crisi voluta e non meritata, perché molte idee sarebbero avvedute e originali. In particolare, nella società italiana nessuno possiede un progetto di società come all’epoca dell’umanesimo, quando il pensiero laico propose un uomo artefice di se stesso; oppure durante l’illuminismo, quando emerse un’ideale di libertà ed eguaglianza universale; oppure ancora nel XIX secolo, quando le dottrine socialiste, compreso il marxismo, seppero indicare nel superamento dell’alienazione e dello sfruttamento un grande obiettivo dell’umanità.
Oggi, la laicità è largamente diffusa. Ma essa è divenuta un pensiero comune: una sequenza di ovvietà. Mentre fino a pochi decenni fa si poteva parlare di un cristianesimo pigro nel senso di una religiosità ritualista, praticata senza molta convinzione, oggi siamo costretti a denunciare una laicità formale e conformista, divisa in famiglie e famigliole che si considerano presuntuosamente delle elìtes, senza riuscire a produrre nulla di più di uno scontato paganesimo provinciale.
Nessuno, nell’attuale mondo laico, ritiene di dover rispolverare un vetusto anticlericalismo ideologico. Ma tutti danno per scontato che la Chiesa si sia rassegnata a un ruolo di minoranza garantita, all’interno di una società secolarizzata. Oppure, che si limiti a parlare al proprio gregge, rinunciando alla pretesa di rappresentare l’intera umanità. E invece, eccola di nuovo intenta a insultare intere categorie professionali, o a porre divieti verso quelle leggi dello Stato che essa ritiene incompatibili con la propria visione teologico-morale. Una moralità pre-confezionata e omnicomprensiva, valida in quanto tale per tutti gli uomini, a prescindere dai loro orientamenti personali e sociali.
E’ esattamente su questo punto che casca l’asino: nel momento in cui la Chiesa esce dai propri ambiti religiosi, il dibattito assume un profilo essenzialmente scientifico, dunque laico. Non si discute più del giusto o dell’ingiusto, bensì di cosa sia socialmente opportuno o inopportuno. Se si vuole realmente prevenire la diffusione di un virus o indebolirne gli effetti, ci si deve vaccinare e basta, a parte i casi meritevoli di esenzione basati, appunto, su opportuni accertamenti scientifici. Ai tempi della peste, le preghiere non servirono a nulla. E vi furono milioni di morti. Punto.
Risulta pur vero, che il pensiero laico dovrebbe ricominciare a porre alcuni interrogativi pratici. Per esempio: cosa s’intende specificamente allorquando si parla di famiglia tradizionale? Innanzitutto, non si può affermare che il modello di famiglia mononucleare, ovverosia quello composto da un uomo, una donna e dai loro figli, rappresenti il vero modello tradizionale di famiglia. Anzi, è vero esattamente il contrario: se la coppia composta da un uomo e una donna è stata la condizione imprescindibile per la riproduzione, essa nel passato non si è mai identificata semplicemente con questa singola funzione. La famiglia cosiddetta tradizionale era quella contadina o nomade dei secoli addietro, cioè quella patriarcale. Essa rappresentava l’orizzonte entro il quale si svolgeva quasi completamente la vita dell’individuo o della coppia, decidendo ogni cosa, persino la scelta del futuro coniuge. Essa, peraltro, garantiva identità, assistenza, sicurezza. Ma di certo non rappresenta un modello sociologico da rimpiangere, poiché cristallizzava un’organizzazione sociale oppressiva, in cui il potere maschile era totale e poteva giungere anche all’omicidio o all’incesto, secondo una concezione della giustizia arcaica e crudele.
La famiglia mononucleare, invece, fu uno degli effetti dello sviluppo economico. Essa proveniva direttamente dall’industrializzazione e dall’inurbamento, mentre molte altre funzioni della famiglia tradizionale vennero assunte dallo Stato. La dissoluzione delle vecchie gerarchie di sangue ha influito profondamente sull’evoluzione della moralità sociale e collettiva: se una coppia, un tempo, viveva all’interno di una grande famiglia patriarcale, tutti gli aspetti del proprio rapporto – anche quelli più intimi – possedevano risvolti pubblici. Ma quando quel contesto è venuto meno, il rapporto di coppia si è trasformato in un fattore soggettivo e privato, per il quale assai minori sono le necessità di una formalizzazione ufficiale e pubblica come quella del matrimonio.
L’odierna organizzazione sociale favorisce la privatizzazione, la soggettività e la sperimentazione dei rapporti. Ma tali condizioni sono quelle che meno favoriscono la stabilità della famiglia, poiché la società attuale, in realtà, è predisposta soprattutto verso quei singoli individui che decidono di vivere una socialità fluida. E ciò vale tanto di più oggi, in cui la cronica mancanza di opportunità per le generazioni più giovani non favorisce uno sviluppo armonioso o la stabilizzazione stessa delle relazioni affettive.
La famiglia, in quanto istituzione, in verità vive una crisi profondissima: i giovani che convivono con i propri genitori per lungo tempo mostrano di contare su di essa, ma anche di non riuscire a crearne una nuova. La famiglia, oggi, è chiamata a dare risposte a molti problemi che proprio non riesce a risolvere: precarietà del lavoro, assistenza, salute. E il più delle volte svolge una funzione di camera di decompressione, in cui vengono a stemperarsi i problemi e le inadeguatezze. Vista da lontano, la famiglia ci appare come un rifugio sicuro, ma osservata da vicino ci si accorge che essa rappresenta un microcosmo di infelicità, conflitti e tensioni, tanto più acute quanto più compresse tra convenzioni e ipocrisie.
La famiglia non è affatto un punto di forza della società, bensì una somma di debolezze. La sua stessa definizione attuale è ben diversa rispetto al passato: essa è diventata un organismo formato da distinti individui, con una propria durata temporale. Una famiglia esiste sino a quando forte rimane la memoria e gli effetti delle azioni di un proprio capostipite, oppure fin quando vi è un patrimonio da gestire. Ma quelle famiglie che non possono identificarsi con le gesta memorabili dei propri antenati o che non hanno ereditato grossi patrimoni da amministrare, tendono ad avere un’identità assai meno marcata nel tempo. Addirittura, possiamo concludere che la famiglia non costituisca nemmeno un beneficio per la coesione sociale, poiché in molti casi essa si rivela egoisticamente, svolgendo funzioni antieducative e antisociali: non è affatto una coincidenza che le grandi organizzazioni criminali come le mafie siano organizzate in famiglie.
Egoismo familiare e individualismo antisociale, totalmente sganciati da ogni forma di responsabilità collettiva, coesistono e si potenziano l’un l’altro in quanto forma di stagnazione sociale. Ma una famiglia chiusa contro tutti non costituisce un luogo in cui le singole personalità possano effettivamente maturare, perché la certezza dei suoi rapporti interni innesca solamente forme di vittimismo psicologico subculturale. E contro questi difetti, ci dispiace, i medici possono fare ben poco: altro che “sicari” di qualcuno. Servirebbero eserciti di psicologi, in realtà, al fine di combattere forme di mimetizzazione gruppuscolare come quelle dei ‘No vax’, che degradano facilmente verso il bullismo e la deresponsabilizzazione individuale. E che, oltretutto, si sentono portatori di verità inossidabili ed eterne.
Il singolo individuo diviene effettivamente libero allorquando riesce ad assumere l’identità etica del cittadino che può raggiungere la sua maturità e la propria effettiva realizzazione umana. Lo stesso presupposto che vede la famiglia come pietra angolare della società andrebbe rovesciato, poiché una volta compiuto il proprio percorso formativo è l’etica della responsabilità sociale quella che ispira le relazioni personali tra gli individui. Dal punto di vista cristiano, la famiglia è una cellula all’interno della quale nasce e si sviluppa l’uomo in quanto persona, l’alternativa alla disperazione individualista. Ma il rapporto uomo/Dio è prevalente e superiore rispetto a ogni tipo di rapporto umano, compresi quelli familiari.
Sono, dunque, la carità e la solidarietà i veri sentimenti che dovrebbero ispirare la società, in quanto amore universale verso il prossimo: un sentimento che non è affatto identificabile con il culto della famiglia. Se osserviamo bene le realtà di ogni giorno, in quest’ultima prevale una cristianità conformista, blanda e accomodante in cui, come confermato quotidianamente dalla cronaca, vengono applicati permissivismi sfrenati e antieducativi. La verità è che le religioni, tutte le religioni, possiedono un fondamento dogmatico, non antropologico, vincolante soltanto per chi ci crede.
Si dice spesso: “Il pensiero laico non è per tutti”. Ma nemmeno quello della Chiesa lo è, perché il limite della sua proposta risiede nel fatto che essa cerca di ristabilire la propria guida sulla società, approfittando di un diffuso bisogno di rassicurazioni, non nella forza intrinseca del suo messaggio: chi vuole conquistare cuori non impone divieti, bensì indica mete più alte da raggiungere. Gli esseri umani sono attaccati alla vita e possono viverla anche se per essi è senza valore. Ma una vita senza valore viene fatalmente vissuta male, con rancori, diffidenze e inimicizie verso se stessi e contro gli altri.
Ciò che dà realmente valore alla vita, invece, è la speranza: la prospettiva e la convinzione di contribuire a fare qualcosa di importante. Ed è di questo che si sente veramente la mancanza: tornare indietro non serve a nulla, se non a ristabilire una società verticista e repressiva, non in grado di risolvere problemi come gli aborti clandestini. Ci sono cose che avvengono lo stesso, anche se di nascosto, come dimostrato dal caso della madre snaturata della provincia di Parma, Chiara Petrolini. La stessa prostituzione è un problema antico come il mondo: si può anche tentare di limitarla attraverso la repressione, ma certamente non si riuscirà mai a sconfiggerla o a eradicarla del tutto.
Quanto al pensiero laico, resta pur vero che esso è divenuto tronfio e superficiale: preso dalla potenza della tecnica e dal piatto modernismo dello sviluppo tecnologico, esso non riesce più rapportarsi alla condizione umana, poiché si è convinto che pensare per tutti porti irrimediabilmente al totalitarismo e che, dunque, sia meglio che ognuno pensi per sé. Manca, dunque, un progetto di società. Un disegno entro il quale ogni individuo possa valorizzare se stesso senza impedirgli di esprimersi. Noi non abbiamo bisogno di certezze: la sola certezza che ci basta è quella di cercare e sperimentare.
Con molta pazienza e tenacia.
(1 ottobre 2024)
©gaiaitalia.com 2024 – diritti riservati, riproduzione vietata