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Festa di Atreju: approvate la Finanziaria e si ponga fine alla farsa

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di Vittorio Lussana

Il comizio di chiusura di Giorgia Meloni alla festa di Atreju, tenutasi quest’anno al Circo Massimo di Roma, è stata una delle cose peggiori che mi sia mai capitato di ascoltare in politica. Un’arringa tutta concentrata sull’autocelebrazione di se stessa e del proprio Partito, secondo una logica autoreferenziale totalmente campata per aria, da attori falliti che tromboneggiano una carriera da c’era una volta. Un discorso interamente proiettato a indicare dei nemici al pubblico ludibrio, parlando male di tutto e di tutti. Di solito, a furia di far così, si finisce con l’autoisolarsi, fornendo facili alibi a qualsiasi interlocutore, anche a quelli più in buona fede.

Il problema di fondo delle destre sovraniste è di essere mosse, quasi esclusivamente, da un’etica del successo, che non risolve i problemi di nessuno e, in qualche caso, li aggrava persino, esacerbando gli animi. Certi toni da demagogia tribunizia ripropongono solamente una mistica messianica da contrapposizione ideologica, con un Governo e un Partito ormai strapieni di indagati, anche per mafia. Perché i voti non puzzano mai, neanche quando sono dei No vax. Nessuna etica della convinzione, dunque. La quale, per lo meno, sgombrerebbe molte nubi in merito ai sospetti di amoralità egoistica e di menefreghismo sociale.

Il passaggio sulla volontà della premier di voler combattere la mafia, collegata al tema dell’immigrazione e del Protocollo albanese, ha dimostrato solamente scarso intuito politico: un tentativo di innescare una vox populi quasi dilettantesco. Se l’operazione Albania è stata messa in campo per combattere qualche organizzazione criminale internazionale, dedita alla tratta degli esseri umani, si dovrebbe chiarire meglio di chi e di cosa si sta parlando, altrimenti si resta a uno stadio di illazione vagamente diffamatoria, lanciata senza alcuna prova a supporto: una chiacchiera da bar, funzionale unicamente a diffondere odio verso le Ong o a rimuovere un fallimento che grida vendetta da tutte le parti. Perché di pura bizzarrìa si trattava e si tratta, risultando vietata ogni forma di respingimento totalmente priva di accordi bilaterali precisi.

Rispetto alle critiche mosse a Roberto Saviano, ci siamo trovati di fronte al solito esempio di analfabetismo letterario, che ha dimostrato unicamente invidia e allergia alla verità nei confronti di un collega che ha avuto il coraggio di squarciare il velo di una retorica da cartolina riguardante Napoli e la Campania. Un’operazione già iniziata nei primi anni ‘80 del secolo scorso dal compianto Giancarlo Siani, che non era neanche pubblicista e che gli costò la vita.

Un comizio che ha solamente finito col dimostrare la fondatezza filosofica della famosa massima espressa da Karl Marx ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, quando quest’ultimo scimmiottò il colpo di Stato imperiale del 1799 da parte dello zio, autoproclamandosi imperatore dei francesi col nome di Napoleone III: “La Storia si presenta sempre due volte: la prima volta come tragedia; la seconda, come farsa”.

 

 

(17 dicembre 2024)

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