di Vittorio Lussana
Nei giorni scorsi, presso l’altare della Patria di piazza Venezia in Roma, si è celebrata la Festa della Liberazione. E come ogni anno, ci siamo ritrovati nelle solite polemiche di sempre.
Cominciamo dalla prima questione: la Resistenza. Essa era formata da formazioni ideologiche diverse, ben distinte tra loro. Tuttavia, tra queste ce n’era una, il Partito Comunista Italiano, che voleva instaurare un regime altrettanto sanguinario rispetto a quello nazifascista, ovvero: quello vigente nell’Unione sovietica di Stalin. Un processo alle intenzioni retroattivo, praticamente, teso a condannare una forza politica che oggi non esiste più richiamandone, involontariamente, il peso storico, l’importanza politica e la sua totalmente presunta minacciosità. In realtà, il Pci di Togliatti era perfettamente a conoscenza degli accordi di Yalta del febbraio 1945. Accordi nei quali era già stabilito che l’Italia fosse destinata all’area di influenza americana.
Socialisti e comunisti – compreso Pietro Secchia e la minoranza filosovietica – avrebbero voluto la neutralità tra i due blocchi contrapposti. Questo punto era un pallino nenniano. Esattamente come l’idea di indire un referendum istituzionale per cambiare la nostra forma di governo – che allora era una monarchia – derivante dal suo passato giovanile repubblicano e mazziniano. E se anche qualcuno avesse desiderato instaurare una democrazia socialista, non la voleva esattamente come quella sovietica. Non esiste un schema unico, in questo genere di cose. Nemmeno nei casi di socialismo coatto. Ed è da analfabeti voler dimostrare una cosa che non si è mai materializzata, accusando una parte politica di voler dividere il Paese. E’ una cretinata da bar, dato che l’Italia, dopo l’8 settembre 1943, si era ritrovata veramente spezzata in due e trasformata in un campo di battaglia. E tutto questo, per responsabilità diretta del fascismo e della monarchia, non certamente del Pci.
Siamo di fronte a un parlare a vanvera che non è nemmeno fascista, ma qualunquista: non solo si accusa qualcuno di aver avuto una semplice intenzione, ma lo si pone sullo stesso piano di chi, quella determinata intenzione, l’ha realizzata e supportata. Un tentativo revisionista che finisce col trasferire alla parte accusata, il Pci, un ruolo di vittima ingiustificato, tramite un’accusa campata per aria che finisce con l’attirare la solidarietà degli altri. Un’ennesima prova di infantilismo politico, per mancata accettazione della realtà.
Ma c’è anche una seconda accusa: quella di una sostanziale irrilevanza militare della Resistenza, per delegittimarla come fenomeno, poiché essa comprova, inoppugnabilmente, come molti italiani non avessero aderito al fascismo in quanto blocco sociale unico. Un’accusa che rappresenta un’altra equazione ideologica astratta, perché gli americani stessi hanno sempre riconosciuto il ruolo, strategicamente fondamentale, della Resistenza italiana durante i mesi di occupazione nazista. Bianca o rossa che fosse: azionista, comunista, socialista, liberale e, addirittura, monarchica.
Affermando certe cose, non soltanto si offendono tutte le altre forze politiche che componevano il Comitato di liberazione nazionale, ma si finisce col rimuovere, tramite il consueto negazionismo che ormai conosciamo, il prezzo altissimo pagato dalla Resistenza italiana in termini di eccidi e morti ammazzati. Oltre a non riconoscere l’eroismo di tutte quelle città che fecero ritrovare la strada praticamente aperta alle forze anglo-americane. Accadde in molti casi, a cominciare da Napoli. Per non parlare degli scontri durissimi, avvenuti casa per casa, in città come Firenze, Livorno, Lucca, Cuneo e presso il porto di Genova.
Infine, vi è un dato oggettivo di fondo, intorno al ruolo della Resistenza italiana, che non la rende affatto diversa da quella francese e di altri Paesi europei: il grosso delle armate anglo-americane, dopo la battaglia di Cassino e lo sfondamento della linea Gustav, vennero trasferite prima in nord Africa e, in seguito, in Gran Bretagna, al fine di preparare lo sbarco in Normandia. Esse vennero sostituite da forze altre, come quelle polacche, brasiliane e, persino, indiane. Ovvero, dalle truppe provenienti dai domini coloniali britannici e francesi: ecco perché accadde quanto accadde in Ciociaria e nel sud del Lazio, con le truppe marocchine sotto comando francese.
Insomma, tutte le polemiche sul 25 aprile sono strumentalizzazioni propagandistiche, animate da revanchismo ideologico. Una forma di religione che c’entra ben poco con le convinzioni etiche e politiche, poiché le trascende, generando divisione – questa volta sì – nel popolo italiano, nel tentativo di riscrivere la Storia a danno di altri. Un revisionismo falso e cialtrone, motivato da forme di opportunismo, non da torti politici subiti in passato: è andata fin troppo bene a molti italiani con l’amnistia voluta, oltretutto, proprio da Togliatti.
Una riflessione realmente autocritica dev’esser fatta intorno a queste vicende, a destra come a sinistra: su questo non ci piove. Ma dopo 80 anni, ritrovarsi sempre nello stesso punto rappresenta un dato ideologico alquanto sospetto, di cui gli italiani potrebbero cominciare a chiedersi il perché: qual è il problema delle destre italiane? Da cosa è motivato il loro immobilismo? Che cos’è quest’atteggiamento da tribunale penale, basato sulle classiche rivendicazioni di chi, dichiarato colpevole, finisce con l’autoaccusarsi ulteriormente, anziché far dimenticare i propri disastri, politici e militari?
Noi crediamo allo sforzo delle destre nel voler rinnovare la propria cultura, al fine di democratizzarsi e modernizzarsi. Ma ne vediamo anche le contraddizioni e le difficoltà. A cominciare da un retroterra che non è storico, bensì pseudo-giuridico.
Da avvocati delle cause perse.
(26 aprile 2023)
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