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Maurizio Costanzo e i segni del tempo che passa #pensieriniromani

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di Vittorio Lussana

Un’altra colonna di Paese Sera se n’è andata. Maurizio Costanzo non è più tra di noi. Egli è passato alla Storia come conduttore televisivo e autentico inventore del talk show. Ma in realtà, Maurizio Costanzo era soprattutto un ottimo giornalista: il miglior esperto di interviste in Italia. Era questa la sua specialità, evidenziata soprattutto nella trasmissione della Rai, Bontà loro.

Una sera lo incontrai: era passato a salutare i tipografi di Paese Sera, dopo tanti anni. C’era anche Gianni Rodari, il poeta per ragazzi, che però andò via subito, perché atteso a una cena. Costanzo aveva appena chiuso un contratto con la Rai, che poi seppi essere proprio quello di Bontà loro. Io ero semplicemente un ragazzino, che accompagnava mio padre al lavoro dopo aver terminato le scuole, all’inizio dell’estate.

Insomma, lui era passato dai colleghi di reparto di mio padre. Lo ricordo basso, tarchiato, già cicciottello. Se ne andò dopo una bevuta pagata da lui, a bordo di una Fiat 500. E noi iniziammo il turno. Scrivo noi, perché in estate c’ero anch’io al giornale. Facevo le rese, per “imparare un po’ di geografia”, mi disse Giancarlo Pajetta. Una notte feci un clamoroso errore: ero convinto che la città di Chieti fosse in Toscana, mentre invece era in Abruzzo. E dovetti rifare tutto l’inventario, perché avevo sbagliato, per più sere, ad archiviare le copie rimaste invendute: non si creda fossero tanto teneri gli operai di un tempo.

Comunque, tornando a Maurizio Costanzo, in seguito lo rividi a Bontà loro. E rimasi letteralmente ammirato dal suo modo di intervistare gli ospiti che aveva di fronte. A cominciare dal presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, vero e proprio cane da guardia dei democristiani. Un breve cappello introduttivo e, subito dopo, la prima domanda: fulminante, senza preamboli, perché “nell’intervista devi mordere”, disse mio padre, “ma l’intervistato non deve accorgersi che lo stai attaccando alla giugulare”. Era bravissimo Ciccio, come lo chiamavamo noi: aveva appreso la vera scuola di giornalismo del Partito…

Bontà loro fu, a mio parere, il suo programma migliore. Poi andò a Mediaset, ma non rinunciò mai alla sua fede progressista e di sinistra: troppo preziosi e importanti erano stati gli insegnamenti che aveva ricevuto dal Partito. E quello sì che era un Partito. Lo sapevano tutti come la pensava, ma lo rispettavano. A cominciare da Silvio Berlusconi, perché quel che aveva dovuto sopportare il Pci, negli anni 1976-’79, lo conoscevano in pochi: un vero e proprio attacco da sinistra da parte delle Brigate Rosse. Una cosa che in molti non si aspettavano e che paralizzò completamente il Partito, il quale si ritrovò condizionato a un atteggiamento di rigidità, dovendo vigilare anche sulla cedevolezza altrui.

Poi vennero gli anni ’80 e la fase craxiana. E quello fu il momento del suo grande rilancio grazie al Maurizio Costanzo Show, di cui mi capitò, un paio di volte, di essere invitato in platea: una volta per caso, grazie a dei biglietti rimediati dal padre di un mio compagno di liceo; un’altra volta, per l’invito dell’ufficio stampa del Teatro Parioli, che già mi conosceva come giornalista, anche se esercitavo solo da pochi anni. Al Maurizio Costanzo Show andava in scena, praticamente, una gigantesca intervista collettiva. Ma non quella classica, che si insegna nei corsi di formazione, bensì molto più raffinata. La scaletta era quella di tante interviste singole, con momenti di apertura al dibattito generale o alla discussione tra due o più ospiti. Era una collettiva ribaltata, praticamente: non le stesse domande per tutti, in cui incrociare le risposte tra loro, ma tante interviste singole, che sfociavano in una dibattito generale. E quando la situazione si appesantiva, lui ristabiliva l’equilibrio con una celia, una burla, un comico a cui porgeva la battuta, Franco Bracardi che suonava qualche accordo al pianoforte.

Era nato l’infotainment: una via di mezzo tra l’approfondimento giornalistico e l’intrattenimento televisivo. La cosa era pensata per aiutare il pubblico a seguire il dibattito in corso nel Paese, per avvicinarlo alla politica, alla cultura, al teatro, al cinema italiano, persino alla lettura dei giornali. Era, praticamente, un grande programma di attualità, perché fino ad allora gli italiani si erano interessati poco e male ai fatti che accadevano, ogni giorno, intorno a loro. E si viveva in compartimenti stagni. Mia madre, per puro caso, aveva trovato lavoro proprio in un teatro, inizialmente come maschera. E subito mi accorsi  di quanto l’ambiente teatrale fosse chiuso in se stesso, come se il mondo esterno non esistesse. Difficilmente ci si contaminava: sembrava una setta.

Stessa cosa per il mondo della cultura: avevo uno zio editore, che mi aveva fatto conoscere il circuito dei letterati romani, rimasti orfani di Pier Paolo Pasolini, che non conobbi per questioni di pochi anni. Ma tutti questi ambienti, sino ad allora, erano tutti distinti e separati tra loro: raramente mi capitava di vedere mia madre leggere una recensione teatrale su un giornale. E quando ciò accadeva, erano giramenti di scatole per tutti, “perché il socialista Sergio Ammirata, nella sua ossessione per Plauto, vuol solo far ridere la gente e sbigliettare, secondo una logica puramente commerciale”: questa era la critica che veniva mossa da sinistra.

Insomma, Maurizio Costanzo conosceva perfettamente questa fotografia del panorama culturale italiano, in cui ognuno viveva rinchiuso nel proprio mondo. Persino le tifoserie calcistiche, nel periodo in cui Paulo Roberto Falcao era riuscito a risvegliare la Rometta degli anni ’70, stavano per conto proprio e non s’interessavano ad altro. Anzi, quasi odiavano i giornalisti sportivi, perché secondo loro non sostenevano abbastanza le loro squadre di calcio. E i resoconti delle partite venivano raccontati con assoluta freddezza, secondo “un’imparzialità standard”, diceva Aldo Biscardi, anche lui frequentatore notturno, a quei tempi, di Paese Sera.

Insomma, Maurizio Costanzo fu il giornalista che seppe rompere tale immobilismo sociale. Fu lui che ci rimise tutti assieme, in un’ottica di comunità. E lo fece sbloccando una condizione di staticità culturale, in cui gli italiani si ritrovavano ammorbati, quasi asfissiati, da una gabbia che li opprimeva da ogni lato, senza mai riuscire a godersi un po’ di cultura o una domenica allo stadio con i propri figli. Solo e soltanto lavoro, non c’era nient’altro: nessuna concessione allo svago. Mio padre, in quanto caporeparto, era uno dei pochi che era riuscito a vedere uno dei monologhi danteschi di Carmelo Bene. E me ne parlò come di un genio, descrivendomi questo attore in scena come un caso di possessione demoniaca. Carmelo Bene diventava un altro: Dante Alighieri redivivo. E quando andò da Costanzo, per uno dei suoi speciali dal titolo Uno contro tutti, io ero uno dei pochissimi che comprendeva cosa significassero quei suoi continui richiami al “non esserci”, “all’essere nessuno”, al “prendere a calci me stesso”, affinché il pubblico riuscisse ad addentrarsi, o quanto meno ad avvicinarsi, a personaggi come Macbeth e Amleto, o a poeti come Giacomo Leopardi o Dante Alighieri.

Infine, nel Costanzo Show, come per brevità cominciò a essere chiamato il suo salotto, c’era l’invenzione degli ospiti. Alcuni assurdi, altri divertenti, altri ancora intriganti: ognuno con la sua fisima, con la sua caratteristica peculiare, valorizzando le qualità di ognuno senza minimamente vergognarsi di “rubare al popolo”, come diceva il mio amico Fiorenzo Fiorentini. Quando Maurizio Costanzo scoprì il giovane attore Richy Memphis, gli chiese quale fosse il suo mito. Ed egli, senza alcuna esitazione, rispose: “Roberto Pruzzo”, scatenando l’ilarità in sala. Quella risposta, tuttavia, lacerò il tempo: non c’era più Mao Tsé Dong, Ernesto ‘Che’ Guevara, Karl Marx o Antonio Gramsci nella testa dei giovani. C’era il pallone, perché era accaduta una cosa particolare: tra la sorpresa generale, nell’estate del 1982 l’Italia aveva vinto i mondiali. E l’anno successivo, la Roma era riuscita a vincere il suo secondo scudetto, dopo un’attesa di 41 anni. Due fatti che avevano significato l’uscita “dall’incubo del sogno”, come disse Dino Viola, allora presidente dell’A.S Roma.

Maurizio Costanzo stava riuscendo a “registrare i tempi che cambiano”, insegnandoci a segnare il passo con le masse, a fermarci con esse, se necessario, persino a esplodere con loro. Un giornalista deve stare vicino al popolo. Deve seguirlo dappresso, per sapere cosa pensa, tastargli il polso, persino sentirlo respirare. Perché è dal popolo che arrivano i segni dei tempi, non dalle ideologie che vanno e vengono. Erano ormai lontani i tempi di Paese Sera e del Male, un giornale satirico che si era divertito a fondare schiaffando, in prima pagina, Ugo Tognazzi come vero capo occulto delle Brigate Rosse. Così, tanto per fargli uno scherzo. Ma quelli erano solo tentativi, esperimenti, prime esperienze. Quel che è riuscito a fare dopo, in televisione, con la Rai prima e Mediaset poi, è stata una grande lezione di giornalismo. Una vera e propria dimostrazione di amore verso questo mestiere, che non è così bello come lo si dipinge. E che può condurre i veri nemici del popolo a piazzare una bomba per strada, nel tentativo di ucciderti.

Ecco cosa vuol dire “servire il popolo”. E Maurizio Costanzo lo ha servito fedelmente. Fino all’ultimo giorno.

 

 

(1 marzo 2023)

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