di Vittorio Lussana, #pensieriniromani
Ha ragioni da vendere Luca d’Alessandro su Lavocegiallorossa.it: siamo di fronte a una Roma ridimensionata, che si è fatta fare il torello dall’Inter già nel primo tempo della partita persa all’Olimpico con un sonoro 0 a 3. Ma non è neanche corretto dare tutte le colpe a José Mourinho per una tendenza che era già in atto da anni, denunciata più volte proprio dal sottoscritto.
L’impressione è quella, tristissima, della fine di un ciclo. Ma c’è la squadra Primavera, la quale sta dominando il campionato giovanile con 8 punti di vantaggio sulla prima inseguitrice, il Napoli. Il vivaio resta il punto di forza più importante dell’associazione sportiva Roma, non dimentichiamolo: tanti sono i nomi emersi dal settore giovanile giallorosso. E ciò rende ancor più evidenti i gravi errori di confusione commessi, a livello societario, sin dalla fine dell’era Sensi.
Sensi padre, in particolare, fu veramente un grand’uomo: egli seppe gestire con un’attenzione quasi genitoriale un talento come quello di Francesco Totti, che meritava di raggiungere tutto il successo che ha poi ottenuto nella sua carriera. Serve, perciò, individuare un nuovo leader, che sappia unire la squadra intorno a sé. E senza troppi stranieri nei ruoli-chiave, come dimostrato da molte altre squadre. A cominciare proprio dall’Internazionale di Milano, il cui centrocampo è ormai stabilmente affidato a Nicolò Barella, neo-campione d’Europa proveniente dalle compagini giovanili del Cagliari.
Li abbiamo i talenti tra i nostri giovani: non serve un esercito di stranieri per costruire una buona squadra. Si osservi il Sassuolo, per favore: sta sfornando attaccanti a getto continuo, a dimostrazione di come ci siano determinate fasi, nella vita di una società calcistica, in cui giunge il momento di tirare le reti e raccogliere il pescato tanto atteso. E’ capitato a molte altre squadre, a cominciare dalla splendida Atalanta allenata da Gian Piero Gasperini.
Insomma, non c’era bisogno di riempirsi di stranieri di medio-livello, come nel passato più recente: gli innesti di prestigio vanni fatti a completamento di un disegno, non come punto di partenza. Ma tale progetto ci dev’essere: bisogna sapere che tipo di squadra si vuol mettere in campo e con quale identità. L’arrivo di Paulo Roberto Falcao, nell’estate del 1980, completò un lavoro di rafforzamento che era già in atto da tempo. Fu un colpo da maestro quello di Dino Viola, che s’inserì perfettamente su un progetto ben preciso, che era poi quello del barone, Nils Liedholm.
E’ anche vero che, se si pensa troppo al passato, raramente si combina qualcosa di buono per il futuro. E si finisce col vivere di ricordi. Ma alcune lezioni vanno tenute da conto. La Roma degli anni ’80 del secolo scorso esplose grazie ad alcune idee innovative, che ancora stentavano ad affermarsi in Italia. Soprattutto, alla luce di un mondiale vinto con il catenaccio, che sembrò quasi celebrare quell’elogio del controgolpe e delle marcature fisse a lungo teorizzate da Nereo Rocco e Gianni Brera. Invece, eravamo innanzi a uno splendido crepuscolo, al canto del cigno del difensivismo, come dimostrò proprio lo scudetto della Roma dell’anno successivo, vinto con la zona lenta e ragionata dei Falcao e Di Bartolomei.
Inoltre, un buon contropiede si può sempre innescare anche giocando a zona: non serve starsene rintanati tutti all’indietro, parcheggiando di traverso persino l’autobus societario a protezione della propria porta. Le zone superveloci dei grandi tecnici che abbiamo avuto, da Sven Goran Eriksson ad Arrigo Sacchi, fino all’estremista Zdenek Zeman, lo hanno pienamente dimostrato. E oggi c’è Gasperini che sta dimostrando come ci si possa difendere anche con soli 3 uomini, senza dover fare le barricate di un tempo. Perché anche il calcio è una scienza, in continua evoluzione.
Si cerchi, dunque, di capire cosa si vuol fare dell’associazione sportiva Roma, quale squadra s’intende costruire e quale tipo di gioco si vorrebbe attuare. Metteteci testa, per favore. A cominciare da José Mourinho.
(7 dicembre 2021)
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