di Lonsito De Toledo
C’è un equivoco che torna ciclicamente, come una corrente sotterranea che riaffiora ogni volta che la cultura viene messa alla prova dalla storia. È l’idea secondo cui i luoghi del sapere, dell’editoria, della produzione simbolica dovrebbero essere “zone franche”, spazi sterilizzati, porti neutrali dove tutto può entrare senza lasciare traccia. Un’idea rassicurante, quasi terapeutica: la cultura come acquario trasparente, dove nuotano idee diverse senza scontrarsi davvero.
Ma questo equivoco non regge. Non ha mai retto. Perché ogni spazio culturale è, inevitabilmente, uno spazio di selezione. Non esiste luogo pubblico che non operi delle scelte, anche quando finge di non farlo. Anche la neutralità è una scelta. Anche il “non giudicare” è un modo di giudicare. Anche il “lasciar passare tutti” è una forma di presa di posizione.
La questione esplosa attorno alla presenza della casa editrice Passaggio al bosco alla fiera Più libri più liberi, organizzata dall’Associazione Italiana Editori (Roma, 4-8 dicembre, ndr), non riguarda dunque un singolo stand, né un singolo catalogo. Riguarda una domanda molto più vasta: che cosa intendiamo oggi per spazio culturale condiviso?
La risposta prudente dell’organizzazione – noi non valutiamo gli orientamenti, noi applichiamo solo un regolamento – ha il pregio della chiarezza amministrativa. Ma il difetto della cecità simbolica. Perché una fiera del libro non è solo una somma di superfici affittate a metro quadro. È un dispositivo di visibilità, un grande teatro della legittimazione. Ciò che appare in quello spazio non è semplicemente “presente”: è riconosciuto.
Ed è proprio questo riconoscimento che ha spinto un gruppo di autori a intervenire pubblicamente. La loro presa di parola non è un gesto di scomunica, ma un atto di interrogazione collettiva. Non chiedono l’esilio delle idee. Chiedono chiarezza sui presupposti.
Perché nessuna comunità, per quanto aperta, può vivere senza presupposti. E il presupposto minimo di una convivenza democratica è che lo spazio comune non venga usato per normalizzare immaginari fondati sull’esclusione, sulla gerarchia rigida, sulla riduzione dell’altro a funzione.
Qui si apre quella che potremmo chiamare la zona grigia della cultura contemporanea. Una zona in cui parole storicamente cariche vengono edulcorate, sostituite, rese presentabili. Una zona in cui i conflitti vengono trasformati in “divergenze di sensibilità”. Una zona in cui la memoria diventa sfondo decorativo, invece che strumento critico.
Il problema non è che esistano visioni del mondo radicalmente alternative. Questo è inevitabile. Il problema nasce quando queste visioni cercano di occupare lo stesso spazio simbolico senza riconoscere le condizioni minime di tale spazio. È come voler disputare una partita senza accettare le regole del campo, ma pretendendo comunque l’applauso a fine incontro.
Nel dibattito pubblico tende spesso a imporsi una formula magica: “libertà di espressione”. Una formula sacrosanta, certo. Ma anche una formula che, se non viene contestualizzata, rischia di diventare un passe-partout retorico. La libertà di espressione non è mai stata, in nessuna fase storica, una libertà assoluta sganciata da ogni responsabilità. È sempre stata una libertà situata, legata a un equilibrio fragile tra diritti individuali e spazio collettivo.
Chi invoca la libertà di dire qualsiasi cosa, in qualsiasi luogo, senza mai interrogarsi sugli effetti di ciò che viene detto, spesso confonde la libertà con la pura esposizione. Ma la parola non è mai un gesto neutro. La parola costruisce mondi. E alcuni mondi non sono abitabili da tutti.
Per questo la domanda sollevata dagli autori non è una domanda moralistica. È una domanda architettonica: quali fondamenta vogliamo dare al nostro spazio culturale? Perché se le fondamenta diventano indefinite, lo spazio stesso rischia di crollare per sovraccarico di contraddizioni irrisolte.
C’è poi un secondo livello, ancora più sottile. Riguarda il rapporto tra passato e presente. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei che non ha mai davvero trasformato una stagione storica traumatica in un oggetto di elaborazione profonda e condivisa. Quel passato è rimasto spesso sospeso: né pienamente rimosso, né pienamente affrontato. È rimasto come un fantasma che ogni tanto ritorna, cambiando solo il vocabolario.
Quando oggi vediamo riemergere certi immaginari, certe parole d’ordine, certi riferimenti simbolici, non assistiamo a una semplice riproposizione dell’antico. Assistiamo a una rielaborazione mimetica, adattata ai tempi: meno divise, più storytelling; meno proclami, più marketing culturale; meno slogan frontali, più allusioni.
Ed è proprio questa capacità mimetica a rendere il fenomeno più pericoloso. Perché ciò che si presenta come “alternativa culturale” può smettere di apparire per quello che è davvero. Può travestirsi da differenza di stile, da gusto editoriale, da nicchia di mercato.
La cultura non può permettersi ingenuità. L’ingenuità è un lusso che si può forse concedere nella sfera privata, non in quella pubblica. Ogni volta che uno spazio simbolico rinuncia a interrogare ciò che ospita, abdica a una parte della propria funzione critica.
Ecco perché l’argomento secondo cui “se si esclude uno, allora si dovrebbero escludere tutti” è una scorciatoia logica. Nessuno propone una selezione basata sul conformismo. Si chiede, semmai, una selezione basata sulla compatibilità con i principi minimi della convivenza democratica. Sono due cose profondamente diverse.
Un conto è ospitare l’alterità. Un altro è ospitare la negazione dell’alterità stessa.
C’è poi un altro aspetto che merita attenzione: il ruolo dell’inerzia. Le grandi trasformazioni culturali raramente accadono sotto gli occhi di tutti in modo spettacolare. Accadono per accumulo, per micro-spostamenti, per somma di piccoli “tanto non cambia niente”. Ogni volta che qualcosa passa senza essere discusso, quella cosa diventa un gradino. E su quel gradino, domani, si potrà salire con maggiore facilità.
La storia ci insegna che i cambiamenti più profondi avvengono spesso quando le società sono stanche. Quando prevale il desiderio di quiete. Quando si preferisce evitare lo scontro, rimandare le domande, archiviare le tensioni come fastidi.
Ed è proprio nei momenti di stanchezza che la cultura dovrebbe invece diventare più vigile. Non più aggressiva, ma più lucida. Non più urlata, ma più ferma.
La presa di parola degli autori ha una valenza che va oltre il singolo caso. È un gesto che riattiva l’idea stessa di responsabilità intellettuale. Ricorda che chi lavora con le parole non può limitarsi a produrre testi: è chiamato, prima o poi, a interrogare lo spazio in cui quei testi circolano.
Difendere uno spazio culturale non significa trasformarlo in un recinto. Significa impedire che si trasformi in una zona indistinta, dove tutto vale allo stesso modo e nulla ha più peso specifico. La democrazia, se smette di saper dire dei “no”, non diventa più inclusiva: diventa più vulnerabile.
E qui emerge una delle grandi contraddizioni del nostro tempo: siamo bravissimi a parlare di diritti, ma sempre più timidi quando si tratta di difenderne lo statuto simbolico. Siamo pronti a proclamare principi astratti, ma esitiamo nel tradurli in scelte concrete. Preferiamo spesso rifugiarci nel linguaggio della procedura, perché è meno esposto. Meno rischioso. Più protetto.
Ma la procedura, da sola, non costruisce un orizzonte. Serve un’idea di fondo. Serve una visione.
La fiera del libro, in questo senso, non è solo un evento: è un laboratorio. È un luogo in cui si misura la temperatura della cultura di un Paese. È un termometro delle sue soglie di attenzione, delle sue paure, delle sue rimozioni.
Quando in quel laboratorio entrano forze che lavorano su immaginari legati alla chiusura, all’identità rigida, alla nostalgia mitizzata del passato, la domanda non è se abbiano il diritto di farlo. La domanda è se noi siamo disposti a considerarli interlocutori alla pari nello stesso spazio simbolico che dovrebbe rappresentare la pluralità aperta.
Perché ogni riconoscimento pubblico è anche una redistribuzione di legittimità. E la legittimità, una volta concessa, è molto difficile da ritirare.
Alla fine, tutta questa vicenda ci restituisce una verità tanto semplice quanto scomoda: la cultura non è un rifugio. È un campo di tensione. Non protegge da ciò che accade nel mondo: lo riflette, lo anticipa, talvolta lo amplifica.
E allora la vera domanda non è più soltanto rivolta agli organizzatori di una fiera o agli editori coinvolti. È una domanda che riguarda tutti: che tipo di spazio culturale vogliamo abitare nei prossimi anni?
Uno spazio in cui tutto viene accolto senza essere interrogato, in nome di una neutralità che somiglia sempre più a un disimpegno?
Oppure uno spazio che accetta il conflitto, la complessità, la frizione, ma non rinuncia a tracciare linee di senso?
Perché alla fine, ciò che una comunità culturale tollera senza discuterlo diventa, lentamente, parte del suo paesaggio. E ciò che diventa paesaggio smette di essere visibile. Diventa sfondo. Diventa normalità.
Ed è spesso nella normalità che si annidano i cambiamenti più profondi.
(2 dicembre 2025)
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