di Mauro Cioffari (attivista Movimento LGBTIQ+)
Se la comunità lgbtqia+ ignora le battaglie degli altri oppressi, perde il senso stesso della sua lotta che non può che essere intersezionale. È possibile rivendicare contemporaneamente diritti civili, diritti sociali e diritti umani per tutte le minoranze oppresse. In sociologia e in giurisprudenza, l’intersezionalità (dall’inglese intersectionality) è un termine proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni, o dominazioni.
L’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società – come il razzismo, il sessismo, l’abilismo, l’omofobia, la bifobia, la transfobia, la xenofobia, l’antisemitismo, e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza – non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione. Il dibattito sulla presenza di brand ai Pride è tutt’altro che nuovo. Ma oggi si intreccia con una crisi umanitaria gravissima e con la sensibilità, sentita nella comunità lgbtqia+, verso ogni forma di oppressione. Per questo, l’indignazione ha trovato, ancora una volta, terreno fertile. Contro la “svendita” dei diritti al grido di “No Pride in genocide”.
In Italia, è bene ricordarlo, esistono Pride completamente sponsor-free, come il Rivolta Pride di Bologna (e non solo). Decine di piccoli Pride, spontanei, democratici, partecipati, che non hanno bisogno di sponsor e di brand per esistere. Perché non tornare al significato e alle modalità originali delle nostre manifestazioni?
Priot – Pride Is Not For Sale, collettivo nato in opposizione alla “mercificazione” dell’orgoglio, ha organizzato a Roma, per il terzo anno consecutivo, lo scorso 14 giugno, una manifestazione alternativa a Ostiense a cui hanno partecipato migliaia di persone. Un’alternativa radicale e transfemminista al Roma Pride (a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di persone) contro il rainbow washing, il capitalismo e la repressione. Una marcia politica, indipendente e senza sponsor per riaccendere il significato originario della rivolta queer.
Diverse, infatti, le aziende coinvolte nel Roma Pride con interessi ritenuti non compatibili con i diritti sociali e umani: Starbucks, Disney, P&G, e altri nomi di rilievo. Starbucks, è opportuno ricordarlo, è una delle multinazionali più ostili ai diritti sindacali e ha licenziato lavoratrici e lavoratori per aver espresso solidarietà alla Palestina.
Nello specifico Starbucks è da mesi al centro di un boicottaggio internazionale per la propria posizione nei confronti di Israele. Vanguard e Blackrock ne detengono quasi il 20%, mentre il maggiore azionista privato, l’ex CEO e presidente Howard Schultz, ne possiede il 3%. Vanguard è azionista di Elbit Systems, ovvero il più grande produttore di armi israeliano. Analogamente, Blackrock detiene una partecipazione significativa in Lockheed Martin, azienda che produce aerei da combattimento per l’esercito israeliano.
A prescindere dalla scelte che ognuno di noi ha fatto (partecipazione, non partecipazione, partecipazione critica, ecc.) perché non prendere atto di queste contraddizioni e ribadire che i nostri corpi, i nostri diritti e le nostre rivendicazioni non sono in vendita?
Ha senso continuare a svendere i nostri diritti al capitalismo?
La mancanza di una riflessione critica sincera rischia di produrre un solo illusorio risultato: l’utopia, transitoria, di una falsa liberazione.
(15 giugno 2025)
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