di Vittorio Lussana
Coppa o coppetta che sia, l’Europa Conference League è stata vinta dall’associazione sportiva Roma, che ha dimostrato di essere una società in fase di rilancio. Era la prima edizione di questa competizione e, probabilmente, a questo torneo internazionale ancora manca un blasone o una tradizione identitaria. Tuttavia, la Roma ha onorato l’impegno e ha dato un senso alla propria stagione: bene così.
Cosa ci sia di male in tutto questo, appare assai poco comprensibile, date le polemiche successive ai festeggiamenti avvenuti nella capitale. Ma si tratta di una questione che chi non risiede nella Città dei 7 colli non può comprendere del tutto. Roma proviene da un decennio molto difficile, in cui la città si è spesso ritrovata nel marasma più completo, scoprendo di esser stata investita da un’ondata di mediocrità e di scarsa professionalità in quasi tutti i campi e settori. L’idea che a Roma non si riesca a far più niente “dritto per dritto”, come si suol dire da queste parti, ha cominciato a generare sconforto e delusione, oltre a rallentare ogni tentativo di risoluzione dei problemi. Pertanto, che almeno nel tirare due calci a un pallone la città si senta ben rappresentata dalle sue squadre, la Roma e la Lazio, significa molto.
Scriviamo ciò anche per spiegare il favore con cui è stata accolta questa vittoria, che molti nel Paese hanno sbeffeggiato come una sorta di coppa del nonno, o in quanto competizione di consolazione. A parte il fatto che non è così, c’è da sottolineare come nessun club italiano stesse vincendo nulla, in campo internazionale, da almeno 12 anni. E questa vittoria della Roma è stato l’unico obiettivo del 2022 centrato da una squadra italiana, dato che per la seconda volta consecutiva non parteciperemo ai campionati mondiali di calcio.
Certo, l’Italia è campione d’Europa in carica. Ma il titolo europeo conquistato l’estate scorsa è stato subito controbilanciato dalla seconda esclusione dai mondiali. E proprio questo ‘sbarellare’ da un eccesso all’altro rappresenta un sintomo che si stenta a far comprendere, in una società annebbiata dal casino quotidiano sui social network, cronicamente affetta da analfabetismo funzionale.
Infine, c’è un ricordo che risale all’estate del 1980: nel giugno di quell’anno, la Roma vinse la sua terza Coppa Italia battendo ai calci di rigore il Torino di Ciccio Graziani e Paolino Pulici: una squadra, quella granata, proveniente da un ciclo molto positivo, che l’aveva vista vincere uno scudetto nel 1976 e tornare a ottimi livelli di gioco grazie all’indimenticabile Gigi Radice. Ebbene, quella vittoria un po’ fortunosa da parte della Roma fu seguita, nel mesi successivi, dall’arrivo di Paulo Roberto Falcao. Un centrocampista che, in quel momento, nessuno conosceva realmente. Eppure, c’era la sensazione che le cose sarebbero migliorate. E così fu.
Bene, se José Mourinho saprà comprendere questa condizione psicologica della ‘città eterna’ e riuscirà a proseguire nel suo lavoro di costruzione di una solida compagine, allora egli sarà in grado di interpretare positivamente le aspettative dei romani, anche se un po’ nostalgiche. Adesso, serve una riflessione seria. E, se possibile, qualche illuminazione, come avvenuto nel 1980 quando fu scelto Falcao come primo straniero dopo la riapertura delle frontiere, stabilita proprio quell’anno.
Insomma: squadra che vince non si cambia. Ma può migliorare. Evitando, ovviamente, di smontare tutto quanto, come fatto più volte negli anni di Pallotta.
Forza Roma, siamo tutti con te: torna a far vedere chi sei e quello che vali.
(31 maggio 2022)
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